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La sfida silenziosa di Nabiullina: il peso della politica monetaria nella guerra russa


Il potere economico è come un gas, pervade ogni interstizio; è come l’acqua: trova sempre una strada; compete con ogni dominio, piega ogni resistenza e chi è in possesso dell’arte di valersene detiene capacità irripetibili che lo rendono stratega sottile sì coraggioso da resistere a capi che, pur detentori di carisma popolare, non possono misurarsi con quel quid, unico e prezioso. Nell’anarchia politica il punto di riferimento principe è proprio la razionalità economica, cui si attribuiscono capacità tali da rendere concrete le grandi illusioni di Norman Angell. Non si può non concordare con Fabio Casini quando dice che l’economia conosce strade che spesso la politica non identifica o finge di ignorare, fino a generare una paradossale formazione di mondi paralleli.

Lord Keynes fu uno dei più assidui viaggiatori transatlantici tra Downing Street e Washington e riuscì tuttavia ad entrare in attrito ed in contemporanea relazione con tutti; certo, questione anche di interlocutori sagaci, ora così drammaticamente assenti; è stata Janet Yellen, segretaria al Tesoro dell’Amministrazione Biden, ad interloquire con il grande timoniere Xi ed a dichiararsi pronta ad andare a Pechino pur di evitare il decoupling. Onore a merito e coraggio di una donna più che intelligente che, al pari dei governatori delle Banche centrali, possiede il pregio di pesare le parole come Yi Gang, predecessore del governatore Pan Gongsheng, che ha convinto Xi che la valuta dev’essere oggetto di alchemiche attenzioni. Altro che lupi guerrieri; come diceva nel 1940 lo storico francese Marc Bloch, la moneta si rivela a un tempo barometro di movimenti profondi e causa di non meno formidabili conversioni delle masse. Solo chi comprende l’essenza di politica monetaria ed istituzioni finanziarie può intuire andamento congiunturale e portata di tagli ed aumenti dei tassi di interesse.

Particolare interesse suscita l’economista Elvira Sachipzadovna Nabiullina, governatrice della Banca centrale russa, fuori dal coro degli apparatčiki osannanti, che ha avuto il coraggio di esprimersi circa la rovina economica provocata dalla guerra ucraina; ha fornito dati attendibili, scomodi, ha rassegnato le dimissioni, respinte, è rimasta al suo spinosissimo posto.

È proprio il valore della moneta che, tra gli altri, sta causando problemi all’economia russa, dato che dal 2019 la sua svalutazione rispetto al dollaro è stata continua; una divisa troppo debole che ha alimentato un’inflazione importata e sistemica che richiederebbe il taglio dei salari e maggiori esportazioni. La diplomazia del denaro negli anni ‘30 ha fallito, il generale Marshall da soldato se n’è servito nel 2° dopoguerra; i banchieri rimangono in ubbia a sinistra e destra, tuttavia indispensabili perché, come recita un detto popolare, senza soldi non si cantano messe. Eppure l’amore popolare è loro precluso, come accaduto a Einaudi, o a Carli.

In Russia la politica ha portato al surmenage un’economia che non può più mutare direzione; la guerra ha condotto la danza dei tassi di interesse sollecitati da inflazione, sanzioni, carenza di manodopera, spesa esorbitante nel settore della difesa per almeno il 6% del PIL, cifre comprensibili per un paese in guerra, soggetto però ad una politica monetaria che non gode delle agevolazioni di cui hanno fruito al loro tempo gli angloamericani, che hanno contenuto il costo del debito pubblico; Mosca non è Londra che si confronta con Washington, deve interloquire con Pechino che, gratis, oltre l’amicizia a chiacchiere, non concede nulla, anzi, economicamente colonizza, almeno fintantoché i russi, costretti a mobilitare, avranno qualcosa da offrire al tempio rosso di Xi. Le decisioni assunte da Nabiullina per domare l’inflazione rischiano però sia di mettere in crisi le aziende controllate dallo Stato, sia di legittimare una scalata interna al vertice della Banca centrale.

Malgrado la politica ritenga che l’economia russa navighi in acque finanziarie mediamente tranquille (un ossimoro), le prospettive di lungo termine mostrano panorami che non escludono possibili stagnazioni; a fronte di una discutibile crescita rimane impresso l’aumento dei fallimenti aziendali ed il rallentamento dei piani di investimento; in sintesi, la crescita è dovuta quasi unicamente allo stimolo fiscale e la spesa pubblica è l’unico sostegno all’aumento del PIL. Ok allora per il buon per Keynes ma solo se ci si trovasse in fase recessiva e con capacità inutilizzate, non come in Russia dove l’economia è in surriscaldamento. Un John Maynard impolitico direbbe che in una situazione del genere la spesa pubblica dovrebbe diminuire, evitando di destinare entrate fiscali a beneficio di un unico settore.

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Porre ora fine al conflitto economicamente comporta rischi: la spesa militare ha arricchito le élite e sollecitato la domanda interna; se la guerra cessasse in un sistema così sbilanciato, il pungolo fiscale cesserebbe determinando un decremento dei redditi reali, cosa che condurrebbe all’aumento delle tensioni sociali ed alla definitiva compromissione della stabilità politica. Nel calcolo del PIL la spesa militare, che verrebbe a ridursi, ora spinge il motore di un’economia dopata e che, malgrado l’apparente solidità, deve affrontare continue insidie, dato che il livello del Fondo sovrano per il benessere nazionale sta diminuendo e che gli utili delle esportazioni sono diminuiti a causa dell’inasprimento delle sanzioni e dei vincoli all’estrazione delle risorse causati dal deficit tecnologico.

Domanda alla Guglielmo Giannini: le sanzioni funzionano? Macroeconomicamente sì, ma non sono certo così rapide come si fantasticava; sono strumenti che producono effetti a medio-lungo termine in relazione ad obiettivi determinati, tarando sostenibilità e costi geopolitici di un’economia di guerra; Nabiullina ha asserito che le sanzioni hanno cambiato la geografia dell’import/export russo, richiedendo una trasformazione strutturale che consideri che il prezzo più salato lo pagheranno le generazioni future.

Il 2024 avrebbe dovuto essere l’anno finale del picco della spesa militare, ormai superiore a quella sociale con un ridimensionamento biennale successivo; in realtà lo sforzo bellico è destinato ad aumentare in un loop inarrestabile. Ad oggi se il PIL cresce, con spese militari fuori controllo, aumentano le tasse, che deprimono gli investimenti alla faccia di Keynes, con un regime progressivo a cinque aliquote e con l’innalzamento delle imposte sulle imprese. Il relativamente contenuto tasso di disoccupazione non è indice di impiego di forza lavoro ma di carenza di manodopera.

La Banca centrale nel 2025 cercherà di contenere l’inflazione a circa il 4%, obiettivo che sottostima l’aumento del costo della vita. Non è un caso che mentre la Russia sminuisce le sanzioni ne chieda contestualmente la revoca, mentre cerca di aggirarle attenuandone gli effetti, come reindirizzare l’export energetico verso sud o importando da paesi terzi compiacenti, benché questo determini aumenti dei costi. Le restrizioni sui trasferimenti di capitali hanno mantenuto quota parte delle ricchezze in Russia mentre la dipartita delle aziende occidentali ha creato nicchie insperate.

Se l’invasione ucraina ha consentito a molti l’uscita dalla povertà, porvi termine creerebbe instabilità, visto che un popolo affamato fa la rivoluzione.

Finché c’è guerra c’è speranza? È un dilemma: sia mantenere il dilatato sostegno keynesiano alla spesa militare sia addivenire a negoziati potrebbe causare un’implosione economica, benché gli scambi evitino il completo isolamento di una potenza atomica in declino demografico.

Anche le passerelle BRICS non aiutano; la Nuova Banca di Sviluppo non può accedere ai mercati del dollaro viste le sanzioni, dirette e secondarie, a carico di Mosca, cosa che rende l’istituto un veicolo della internazionalizzazione strategica del renmimbi, peraltro ancora non pienamente convertibile ed a cui non fa comodo un’entrata dei ricchi sauditi che andrebbero ad infrangere equilibri funzionanti se l’egemone è da solo. Posto che la maggior parte degli economisti è fuggita dal Paese e che dal 2014 le 3 crisi valutarie russe sono state superate con un rialzo del tasso di sconto, l’ultimo aumento dal 19 al 21% ha innescato le critiche al governo da parte dell’oligarchia moscovita, toccata direttamente alla sinistra del cuore.

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Malgrado le priorità della Nabiullina siano ancora controllo dell’inflazione, riduzione della fuga di capitali, stabilizzazione del rublo e sostegno all’incremento del PIL, la lenta crescita economica non assicurerà sviluppi successivi; dopo il trasferimento al FMI della sua prima vice, Kseniya Yudayeva, su Elvira pende la spada di Damocle della sostituzione con un da-man lealista disposto, a là Erdogan, ad abbassare i tassi di interesse.

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Che fare? Da un lato, se l’inflazione dovesse accelerare i capitali fuggirebbero stendendo definitivamente la valuta, dall’altro mantenere alti i tassi può causare il fallimento del comparto industriale.

Prima conclusione: considerato che la crisi economica è correlata all’invasione ucraina ed alle sanzioni occidentali, l’unica soluzione consisterebbe nel porre fine alla guerra. Un sipario ora impossibile, benché faccia parte dei ricorsi storici: il collasso del rublo, con contorno di invasione cecena, portò Putin a succedere a Eltsin e ad incassare aiuti occidentali mai completamente tracciati.

Ad oggi Nabiullina rimane fondamentale nella verticale del potere russo, poco benevolmente paragonata a Schacht, il banchiere che stabilizzò il Reich; un elemento così importante, e non transeunte come tanti gallonati, che sembrerebbe aver chiesto al Cremlino di valutare un inizio di negoziati con l’Occidente, ritenendo esiziale l’aggravamento delle condizioni economiche generali. Quella di Elvira è una poltrona attraente e pericolosa come il lato oscuro, desiderata ma non voluta da nessuno perché ad un’altezza vertiginosa e perché nessun altro gode della considerazione a lei ovunque riservata. L’ambivalenza del suo operato è evidente: rialzo dei tassi di interesse ma critica impietosa all’economia di guerra che mai come ora deve raffreddare l’inflazione ed essere protetta dalle misure populiste come quelle sui mutui agevolati per alcuni ed a tagliola per altri. La politica monetaria post 2016 l’ha costretta a difendersi, protetta da Putin, che comprese come fosse riuscita a proteggere la stabilità fiscale giocando sulle più basse quotazioni petrolifere in dollari. Forse, in questo momento, Nabiullina è l’unica ad avere una visione completa della situazione, al netto dei condizionamenti politici e fedele alla razionalità che il suo compito le richiede; l’unico vezzo concesso è quello di indossare capi e spille intesi a trasmettere messaggi altrimenti non divulgabili.

Per provare a comprendere i possibili intendimenti del Cremlino, sarà opportuno valutare se ci saranno ulteriori estensione del suo mandato, visto che Nabiullina è rimasta a presidio dell’indipendenza monetaria dalla sfera politica quale unica personalità capace di tenere testa ad un vertice votato al sovranismo economico.

Il problema è comprendere fino a quando lei, con le sue spille, avrà la possibilità di esprimersi.





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