Alla COP29 è stato affrontato il tema dei finanziamenti per il clima, ma il fragile compromesso raggiunto evidenzia le divisioni tra blocchi geopolitici, l’inadeguatezza delle risorse stanziate e l’incapacità di rispondere alle esigenze dei Paesi più vulnerabili, gettando un’ombra sulle ambizioni future della lotta al cambiamento climatico.
Si è conclusa a Baku la 29esima edizione della Conferenza delle Parti. Conosciuta come COP, era stata annunciata come la “conferenza della finanza climatica” e, almeno parzialmente, sembrerebbe aver rispettato le aspettative. Infatti, sebbene l’accordo finale sia discutibile in termini di ambizione e portata, è innegabile che il tema dei finanziamenti per il clima abbia occupato il centro del dibattito.
La COP è il principale organo decisionale della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, un trattato internazionale adottato nel 1992. Tutti gli Stati firmatari della Convenzione sono rappresentati alla COP, che annualmente ne esamina l’attuazione e promuove strategie nuove per raggiungere l’obiettivo fondamentale di prevenire le pericolose interferenze antropogeniche con il sistema climatico terrestre.[1]
Per poterci riuscire, quest’anno, la COP29 – che si è tenuta nella capitale dell’Azerbaijan dall’11 al 23 novembre, concludendosi con un giorno di ritardo rispetto alla tabella di marcia – ha posto il focus sui finanziamenti per il clima. Una scelta, quest’ultima, necessaria quanto obbligata. Necessaria perché parlare di clima che cambia significa anche dover parlare delle ormai indispensabili e onerose misure di mitigazione e adattamento. Misure che si rendono necessarie con urgenza maggiore soprattutto in quei Paesi del Sud globale che – pur avendo meno contribuito a provocare il climate change – più risentono dei suoi devastanti effetti. Obbligata perché proprio il 2024 rappresentava la data di scadenza entro la quale le Parti avrebbero dovuto concordare un nuovo obiettivo di finanziamento. Nel 2009, infatti, durante la COP15 di Copenaghen era stato “preso atto”[2] della necessità di mobilitare, combinando fonti pubbliche, private, bilaterali e multilaterali, 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020. Questo impegno, da considerarsi come indirizzato verso i Paesi in via di sviluppo, è stato ampiamente disatteso e così, alla COP26 di Glasgow, si è individuato il 2024 come anno in cui implementare un nuovo e più ambizioso obiettivo di finanziamento a lungo termine, per sostituire e ampliare il precedente impegno dei 100 miliardi.
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Il nuovo obiettivo finanziario avrebbe dovuto anche identificare i Paesi chiamati a contribuirvi, determinando in particolare il sostegno specifico dei Paesi più sviluppati. Proprio questo tema ha costituito uno dei pomi della discordia della COP29. Infatti, come in realtà già accaduto anche durante le precedenti edizioni dei vertici climatici, ci sono state numerose polemiche su quali Paesi possano considerarsi sviluppati e quali no. Polemiche che trovano la loro ragion d’essere nel fatto che solo i primi sono tenuti, da adesso, a contribuire in maniera vincolante ai finanziamenti climatici mentre i secondi, cioè i Paesi in via di sviluppo – categoria in cui è inclusa anche la Cina, che oggi è il primo Paese per emissioni di gas serra in atmosfera in termini assoluti (ma non anche in termini di emissioni pro capite)[3] – vi contribuiscono solo su base volontaria. La discussione in questione riflette, dunque, disaccordi più ampi su responsabilità storiche, equità e dinamiche di potere globali e la mancanza di una chiara revisione del sistema di classificazione continua a ostacolare progressi significativi sui finanziamenti climatici.
Non a caso, anche quello raggiunto a Baku, non è stato considerato come un accordo particolarmente efficace. Esso prevede lo stanziamento, entro il 2035, di circa 300 miliardi di dollari l’anno che proverranno non solo dai bilanci pubblici ma anche da un’ampia varietà di fonti. Una circostanza che accontenta i Paesi ricchi, ma mortifica invece le aspettative di quelli più poveri, che così vedono compromessa la possibilità di sopperire ai propri bisogni climatici a causa delle incertezze del mercato, dei tassi di interesse, delle banche multilaterali di sviluppo come la Banca mondiale. A questo riguardo, poi, non si può non riflettere sul fatto che – a seguito di un accordo informale concluso nel 1944 tra Stati Uniti e Europa – il Presidente della Banca Mondiale è tradizionalmente nominato tra i cittadini statunitensi, mentre il Direttore Generale del Fondo Monetario Internazionale è tradizionalmente un cittadino europeo. Questo accordo, di per sé già soggetto a numerose critiche andando a limitare la rappresentanza dei Paesi in via di sviluppo nel processo decisionale di entrambe le istituzioni, finisce per complicare ulteriormente la posizione degli stessi adesso che Trump ha ottenuto il suo secondo mandato alla Casa Bianca e ha minacciato di uscire per la seconda volta dall’Accordo di Parigi.
Un’ulteriore criticità dell’accordo conclusivo della COP29 riguarda la mancanza di dettagli chiari e specifici sulla composizione della cifra pattuita. Questa, oltre a risultare significativamente inferiore rispetto alle richieste avanzate dai Paesi in via di sviluppo, non specifica la ripartizione tra concessioni e prestiti né indica quale percentuale sarà destinata alle misure di mitigazione e quale a quelle di adattamento.
L’ombra dei combustibili fossili
Quella dei 300 miliardi non è stata però l’unica cifra presente nel testo dell’accordo. Al suo interno, infatti, si è fatto menzione anche dei 1300 miliardi di dollari richiesti dai Paesi in via di sviluppo che, alla fine, pur di non veder naufragare in via definitiva i lavori hanno deciso di accettare un obiettivo molto deludente.
Non sono mancate altresì accuse al Paese ospite della COP29: l’Azerbaijan è classificato come petrostato e il suo presidente, Ilham Aliyev, nel discorso di apertura del summit internazionale ha descritto le ampie riserve di petrolio e gas naturale presenti nel Paese come un «dono di Dio».[4] Inoltre, il Capo di Stato è stato anche accusato di aver usato la conferenza ONU sui cambiamenti climatici per perseguire obiettivi politici personali, piuttosto che per cercare di trovare un accordo per tutelare lo stato di salute del sistema climatico terrestre. Aliyev si è poi reso protagonista di una sfuriata contro l’ipocrisia occidentale, ha accusato Paesi Bassi e Francia di colonialismo e ha denunciato la presunta repressione attuata dai francesi nei confronti delle comunità dei territori d’oltremare, minacciate dai cambiamenti climatici.
La COP29, quindi, si è svolta in un generale clima di tensione. Ma ciò che è emerso con ancor più evidenza è stata la sensazione di stallo che aleggiava tra i delegati, tutti (o quasi) già proiettati a Belem, dove si terrà la prossima Conferenza delle Parti. Quella del prossimo anno rappresenta, senza dubbio, uno snodo simbolicamente importante nella diplomazia climatica, che arriva a 10 anni esatti dall’Accordo di Parigi e a cinque dal 2030, tappa ricorrente quando si parla di clima. Le ambizioni del futuro, però, mettono radici nell’impegno del presente ed è per questo che non si può non guardare alla COP appena conclusa come a un momento decisivo nel percorso globale verso la giustizia climatica. Se da un lato, infatti, il tema cruciale del finanziamento è stato finalmente affrontato, dall’altro le divisioni tra i blocchi geopolitici e le scelte di leadership hanno compromesso risultati più ambiziosi. Risultati che, attualmente, non colmano il divario tra le promesse e le reali necessità dei Paesi più vulnerabili alla crisi climatica.
[1] https://unfccc.int/process-and-meetings/what-is-the-united-nations-framework-convention-on-climate-change
[2] L’Accordo di Copenaghen non è stato adottato formalmente dalla COP15 a causa delle divisioni tra i Paesi partecipanti al summit, che si sono limitati a prendere delle misure contenute al suo interno.
[3] https://climateactiontracker.org/countries/china/
[4] https://www.youtube.com/watch?v=Oy1ySk6Lt10
Foto copertina: Leader e delegati alla COP29
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